di Roberta Guida
Dalla penna dell’attore e drammaturgo statunitense Tracy Letts, opera premio Pulitzer 2008, Agosto a Osage County arriva in Italia nel 2003 attraverso la regia di Filippo Dini ed in scena al Teatro Bellini di Napoli nella stagione 23/24 dal 25 Gennaio al 4 Febbraio. Il testo, che ha trovato successo nella duplice versione teatrale e cinematografica, approda sullo storico palcoscenico partenopeo, da anni affermato punto di riferimento per piece e artisti internazionali. Le vicende dei Wetts consentono all’attore e regista genovese di condurre una lucida analisi della famiglia moderna, attraverso una trama di segreti e colpi di scena, verità e controsensi, e dando voce a tutti quegli aspetti conflittuali, che in fondo, accomunano tutti noi.
La trama
Osage County, in Oklahoma, è una contea arida di pianure desolate, dove anni addietro hanno trovato casa e messo radici numerosi immigrati dalle disparate origini europee. Anche Beverly vive qui, ex professore universitario, poeta e alcolista, con sua moglie Violet, dipendente dai farmaci. Beverly appare per primo sulla scena, mentre è alle prese con una giovane donna di origini indiane, convocata presso la dimora dei Weston, per essere assunta come domestica e prendersi cura della signora Violet, affetta da un cancro alla bocca. La vita incede in modo ordinario fino a quando Beverly si allontana misteriosamente da casa per non farvi più rientro. Ivy, l’unica figlia della coppia rimasta a Osage County, inizia le ricerche e, per decidere sul da farsi, convoca il resto della famiglia. In particolare accorrono Barbara, la primogenita, col marito Bill, la figlia Jean, e gli zii Mattie e Charlie.
Ricerche e supposizioni vengono presto interrotte dall’annuncio dello sceriffo di zona sul ritrovamento del corpo di Beverly nelle acque del lago, gonfio e sfigurato per essere stato mangiato dai pesci, al punto che è necessario che un volontario proceda al suo riconoscimento.
Anche Karen la terza figlia dei Weston raggiunge la dimora familiare in occasione del funerale del padre, accompagnata dal suo nuovo compagno Steve, con cui annuncia che convolerà presto a nozze, e dopo le esequie sopraggiunge infine il figlio di Mattie e Charlie, il cugino Charlie piccolo.
Lo sceriffo, recatosi nuovamente presso i Weston, dichiarerà che la morte è avvenuta per suicidio come qualcuno in famiglia aveva temuto, e che Beverly avrebbe preso il largo con la sua barchetta e si sarebbe lasciato annegare. Una verità così forte e crudele scoperchia gli aspetti più compromettenti dei Weston, e proprio nelle ore più drammatiche che questa famiglia potesse vivere si fanno spazio ed emergono le più radicate controversie e profonde fragilità.
I personaggi
Protagonisti della storia sono tutti i membri di questa famiglia qualunque, e non solo apparentemente qualunque, ma proprio nel senso di essere intensamente attanagliata dalla moltitudine di bizzarrie, segreti, e dietrologie irrisolte. Ogni personaggio cela dietro la propria caratterizzazione stereotipata, la tipica angoscia del proprio tempo: Barbara tiene insieme quel che resta della sua famiglia, riflettendo sulla figlia la frustrazione dello smarrimento dopo aver incassato il tradimento del marito con una donna più giovane, esercitando per questo un controllo smodato nei suoi confronti; Ivy, mite quarantenne dall’aspetto svogliato, è il bersaglio preferito della madre che tenta invano di modellarne ancora l’aspetto, ignorando completamente gli slanci personali della figlia; Karen, che si unisce alla famiglia solo per il funerale, è divorata dall’ansia del tempo che passa, si accompagna a un uomo viscido e completamente privo di empatia, solo perché l’obiettivo del matrimonio e dell’agognato viaggio di nozze, sovrasta ogni razionale pensiero.
Gli zii, invece, sono incastrati in una vita tutto sommato media, indugiando in un equilibrio coniugale buffamente funzionale, legati da un segreto profondissimo e antico quanto la loro relazione. Proprio in virtù di questo, l’uno è spinto verso un paternalismo accudente, l’altra verso una genitorialità arida e severa, che trovano sostanza in una personalità immatura e fragile, come quella di Charlie piccolo. Quest’ultimo è l’anello debole di una catena di abitudini e cinismo, un uomo rimasto bambino, troppo buono per una società spietata e veloce, che trova nella relazione segreta con la cugina Ivy l’unica dimensione sana della propria esistenza. Le figure di Beverly e Violet aderiscono al contempo ai tipi dell’eroe e dell’antieroe, come facce di una stessa medaglia. Da un lato sono i poli di un rapporto perdurante, nonostante il tempo e le mancanze, dall’altro l’essenza di disfunzioni e vuoti che raccontano di genitori come individui, fallibili, il cui agire si ripercuote inesorabilmente sulla prole e su chi li circonda. Ed infine Johnna, svelta e laboriosa ragazza di origine Cheyenne, ignorata dal resto della famiglia, che in incarna un tradizionalismo perseverante, come un silente veliero che non perde mai la rotta. La ragazza, infatti, è assidua nei lavori di casa, assiste la signora Violet, al punto di consolarla quando si ritroverà sola e completamente stordita dal dolore e dalle pasticche. Reagendo sempre con cura e gentilezza, Johnna rappresenta la speranza resiliente di rimanere umani nonostante le brutture del mondo.
La messa in scena
Il testo di Letts ha un carattere vibrante, è un contenitore di sentimenti ed immagini di domestica straordinarietà e di quotidiana ferocia. La famiglia, che manco a dirlo è il punto di partenza o approdo della maggior parte degli autori contemporanei, viene raccontata dall’autore statunitense attraverso uno spaccato che comprende tre generazioni che ci consente di mettere un piede nel passato e di immaginarci nel domani. Appare evidente cosa abbia spinto il regista Dini a rappresentare sui palcoscenici italiani una storia che si ambienta dall’altra parte del mondo: la similitudine, la verità di noi stessi, l’essenza di ciò che siamo.
L’allestimento si sviluppa in poco meno di due ore, attraverso una scenografia danzante che richiama un taglio latamente cinematografico, ricordando così la pellicola di Wells del 2017, con un cast magistrale.
Il gruppo diretto da Filippo Dini, infatti, è un ensemble di tecnica e passione che tinge le parole di Letts con tinte vivide e distinguibili. Una regia sapiente e dettagliata conferisce agli attori un andamento lineare col quale ciascuno si muove al meglio di sé. C’è la pregevole esperienza di Anna Bonaiuto e dello stesso Filippo Dini nei panni rispettivamente di Violet e Bill, ma anche la raffinata tecnica delle attrici che impersonano le tre figlie, Manuela Mandracchia, Stefania Medri e Valeria Angelozzi, che si rincorrono in dialoghi incalzanti e dalle mille sfumature. Ed ultima, ma non ultima, un plauso la platea del Bellini l’ha rivolto anche all’interpretazione della giovane Caterina Tieghi, che calza le vesti ribelli e vivaci dell’adolescente Jean.
Il plot è carico di picchi, il che rende l’andamento narrativo coinvolgente, la sensazione finale è che si sia trascorso un tempo dilatato in compagnia della famiglia Wetts. Viene da chiedersi chi abbia resistito di più nel caos di menzogne ed espedienti per sopravvivere, se è da biasimare Beverly e la sua scelta di tagliare con la vita e con ciò che rappresenta, se il suicidio sia nel contesto un evento meno tragico dell’esistenza stessa. L’ humor anglosassone, fedelmente trasposto nella traduzione curata da Monica Capuani, è l’ingrediente vincente per ammorbidire i toni, esorcizzare l’inquietudine avvolgente dei Wetts e suscitata negli spettatori in sala.
Conclusione
Nella drammaturgia di Tracy Letts, la famiglia è messa sotto una grande lente di ingrandimento, e le vite dei personaggi sono cordoni elastici che in maniera alternata si allontanano e tornano indietro al punto da cui tutto è iniziato, al focolaio. La famiglia non è solo terreno di dissapori e incomprensioni, ma qualcosa di più profondo: è lo spazio personale più intimo e tremendo di ciascuno, l’antro oscuro dove si insediano le più ataviche fragilità, la ragione della maschera che indossiamo e la maschera stessa. Nel confronto con le generazioni che si succedono e l’eredità che lasciano troviamo il fondamento dei conflitti familiari e dei più radicati controsensi umani, ma è proprio nell’imperfezione che è possibile trovare sollievo e apprezzare la vita per il buono che ci consegna, nella consapevolezza che “nessuno è perfetto quaggiù nel fango, come noi”.
(foto di scena tratte dal sito del Teatro Bellini)