di Ulderico Pomarici *
Hamaguchi Ryusuke, quarantaduenne regista giapponese porta in scena due film nel 2021: Il gioco del destino e della fantasia e Drive my car, entrambi vincitori, il primo dell’Orso d’argento alla Berlinale, il secondo della Palma d’oro a Cannes. Il soggetto di Drive my car è tratto da un libro di racconti di Murakami Haruki, Uomini senza donne. In modo originale i titoli di testa, a sottolineare il ‘vero’ inizio del film, vengono sovrascritti dopo un lungo prologo che ci racconta del protagonista, Yosuke, un giovane attore e regista teatrale, compagno di una sceneggiatrice, Oto. La loro vita sembra scandita dalle parole e dalla passione amorosa. In una delle prime scene, quasi in tono programmatico, vediamo Yosuke impegnato a recitare nell’En attendant Godot. Poi il film fa posto all’intimità della coppia: mentre fanno l’amore lei racconta le storie che sta scrivendo e sembra quasi che l’orgasmo arrivi al culmine delle parole del racconto. Come se sesso e affabulazione si alimentassero nella creatività. Oto durante l’intimità con Yosuke sceneggia una storia: una ragazza si introduce di soppiatto nella casa dell’amato prendendo e lasciando oggetti come segni tangibili della propria presenza e Yosuke, con la sua fantasia, l’accompagna in questo percorso immaginario del quale entrambi tessono le fila. Presto si scopre che dietro le geometriche purezze della loro casa e la passione amorosa così esibita, Yosuke e Oto non sono una coppia felice. Lei lo tradisce molto spesso con altri uomini, e lui, che ama profondamente la moglie, tace portando con sé il rovello di questi tradimenti. Un giorno, Oto dice al marito che al ritorno dal lavoro deve parlargli ma Yosuke sembra volersi sottrarre a questa rivelazione e vaga per ore in macchina nella città. Al ritorno, però, trova Oto svenuta e non riesce a risvegliarla. Un’emorragia cerebrale ne ha provocato la morte e Oto porta il proprio segreto con sé. Questa sarà la pena che Yosuke sente di dover scontare: non essere ritornato in tempo a salvare la moglie perché sentiva che quel che Oto aveva da dirgli avrebbe cambiato le loro vite per sempre.
Al temine di questo prologo iniziano a dipanarsi i fili del racconto. Trascorsi due anni dalla morte della moglie Yosuke accetta non senza perplessità di trasferirsi a Hiroshima per dirigere un laboratorio teatrale. Qui, insieme a una compagnia di attori che recitano ciascuno nella propria lingua (giapponese, mandarino, filippino, inglese, finanche il linguaggio dei segni coreano), lavora come regista all’allestimento dello Zio Vanja.
Così lo vediamo alle prese con i provini per attribuire le parti, e a presentarsi è anche Kōji, un giovane attore che Yosuke conosce gli era stato presentato da Oto. Mentre per la parte di Vanja andrebbe trovato un attore maturo – Vanja ha nel dramma di Cechov 47 anni – Yosuke, sorprendendo tutti, attribuisce questo ruolo principale proprio a lui che è stato – Yosuke ne è certo – uno degli amanti della moglie. Perché questa scelta ? E perché, invece, Kōji finisce per sottrarsi al ruolo restituendo a Yosuke la parte di zio Vanja? Infatti, dopo le prove e quando il dramma sta ormai per andare in scena, viene arrestato per aver causato la morte di un ragazzo dopo un litigio. Sembra quasi che Kōji compia il gesto criminoso per ‘riparare’, con una restituzione sacrificale, al tradimento perpetrato con Oto.
Yosuke, geloso della propria guida nella Saab 900 di un rosso fiammante, guida in perfetta solitudine mentre ascolta, per memorizzarlo, il testo di Zio Vanja registrato dalla voce di Oto, ma, nel suo nuovo ruolo a Hiroshima, per motivi contrattuali è costretto a condividere la sua vettura con una giovane autista, Watari, che gli viene assegnata dalla produzione. Due perfetti estranei condividono per ore il piccolo spazio della vettura, della quale Yosuke si sente al principio espropriato. Così i lunghi spostamenti in macchina dall’albergo al teatro sono silenziosi, segnati dalla voce registrata della moglie morta, presenza ingombrante che rinnova il dolore e tiene, distanti ma vicini, Yosuke e Watari nella vettura, come una scatola magica che corre dipanando le battute del dramma. Poco alla volta però si fanno strada timidamente le parole vive del dolore che sciolgono quel silenzio interrotto solo dalle registrazioni. Yosuke entra in confidenza con la ragazza che gli fa da guida e che ha 23 anni, la stessa età che avrebbe oggi la propria figlia, perduta quando era piccolissima. Accanto a questa analogia, ne scoprono un’altra ancora più importante: entrambi vivono con un enorme senso di colpa. Così come Yosuke è convinto di avere ucciso Oto ritardando il ritorno a casa, anche Watari, sopravvissuta al crollo della propria casa, lascia morire la madre sotto le macerie senza provare a salvarla. La ragazza, rivelatasi un’autista perfetta, diventa una guida in senso letterale: testimone attiva del travaglio interiore di Yosuke, risveglia così il proprio. Un’autista-Virgilio, compagna di viaggio, maieuta nell’elaborazione del lutto e alla fine partecipe di un viaggio doloroso nella memoria che si rivela comune. Drive My Car è un film di parole – addirittura sublimate nella mimica del linguaggio dei segni di un’attrice muta – ma non è un film teatrale. Piuttosto rappresenta un viaggio nell’interiorità del protagonista che come in un prisma si rifrange lungo i corpi e le parole degli attori che si danno battaglia verbale sul palcoscenico. La trovata del regista di farli recitare ognuno nella propria lingua vuole, da un lato far emergere l’universalità del messaggio cechoviano, la condizione umana rivista sotto ogni latitudine ma, dall’altro, sottolineare come proprio solo dall’estraneità può nascere autentica comunicazione. Drive my car – guida la mia auto – non altro significa, infatti, che il γνῶθι σαυτόν dell’oracolo delfico: solo attraverso la guida dell’altro si dà la possibilità di entrare davvero dentro di sé. Ed è guardando dentro di sé che può ritrovarsi il riflesso di quella verità che in un primo tempo appare come estranea. Solo così c’è conoscenza. Questa è la promessa della Sònia cechoviana – interpretata dall’attrice muta – che un colpo di genio del regista proprio a lei fa recitare il monologo finale della pièce e la vediamo mentre muove le mani lunghe e affusolate che accolgono, circondano e accompagnano con immenso affetto e fiducia nel futuro il pianto nel quale si scioglie alla fine zio Vanja. Il filo rosso del film corre lungo l’allestimento del dramma cechoviano e c’è una battuta fra due protagoniste del dramma, Sònia e Elena, che sembra importante per comprenderne il senso profondo: a Sònia, che vorrebbe sapere e assieme non sapere se il dottore la ama, Elena risponde: “la verità, qualunque possa essere, è sempre meno terribile dell’incertezza”. Yosuke e Watabi sono davvero colpevoli? Certo, la morte attraversa e segna le loro vite, anche Kōji ne resta, forse volontariamente, prigioniero e nella stessa sceneggiatura di Oto alla fine si scopre un morto assassinato. Dunque, una meditatio mortis mai passiva, bensì attiva accettazione del proprio percorso esistenziale, senza rimpianti, perché eticamente è necessario continuare a vivere delle possibilità che la vita continuamente ci offre e che rappresentano qualcosa di sacro come Sonìa dirà splendidamente nel monologo finale: “Noi, zio Vanja, comunque vivremo. Vivremo una lunga, lunga serie di giorni, di lunghe serate; sopporteremo con pazienza le prove che il destino ci manderà; e, quando verrà la nostra ora, moriremo con mansuetudine, e di là, dalla tomba vedremo una vita luminosa, stupenda, meravigliosa, ne saremo contenti e ci volteremo a guardare le nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso… e riposeremo”.
(*) Ordinario di Filosofia del Diritto
Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’