HOMECOMING di Michael Ackerman alla Spot Home Gallery

di Luca Sorbo *

La perfezione può essere una bugia, cerco attraverso la casualità e situazioni estreme di indagare la fragilità e la vulnerabilità dell’esistere”.

Queste parole di Michael Ackerman mi accompagnano mentre osservo le immagini esposte alla Spot Home Gallery di Cristina Ferraiuolo inaugurata giovedì 13 febbraio e visibile fino al 30 giugno. Michael ha occhi azzurri che esplorano continuamente lo spazio che lo circonda ed è sempre attento ad ogni cosa che accade. Quando risponde alle mie domande mi fissa costantemente negli occhi ed avverto la forza del suo agire ed il suo bisogno di sincerità.

Homecoming è il titolo della mostra e raccoglie la ricerca visiva dell’autore a Varanasi in India ed a New York. Sono immagini di straordinario impatto visivo che catturano la retina e ci immergono nel suo mondo interiore, nei suoi dubbi e nelle sue angosce. Foto sgranate, con vignettature evidenti, realizzate in situazioni luministiche estreme, di soggetti molto diversi si presentano come delle allucinazioni di sorprendente coerenza e che ci trascinano in una dimensione ancestrale. Sembra quasi che la realtà indagata ai margini abbia qualcosa in comune, sembra che esista una verità nascosta nelle pieghe della vita e che emerge quando la vita deraglia dai binari della normalità.

Michael dice che il suo guardare è come quello di un cane che cerca di annusare la vita in cerca di autenticità e verità. Non è attratto da situazioni pericolose, non cerca l’adrenalina del rischio, è il mistero che lo affascina in modo irresistibile ed è per investigare il mistero che attraversa il mondo. I suoi soggetti a volte sono duri, rivelano un profondo disagio materiale, ma il suo approccio è sempre di grande delicatezza ed eleganza. Come Alice nel paese delle meraviglie Michael attraversa alcune delle realtà urbane più complesse del pianeta con animo puro e gentile, registrando le impronte di un mondo impazzito, ma che conserva tracce di una sincerità originaria e di una bellezza inaspettata che nessuna brutalità ha potuto cancellare.

Il suo è un errare che si confronta senza difese con tutti gli aspetti dell’esistere e nell’ investigare il molteplice individua gli elementi comuni, ineliminabili che caratterizzano il senso della vita. Ed è forse questo il segreto della sua ricerca, mettere la vita alle strette, obbligarla a rivelare il segreto della sua origine e del suo destino. Un indagare il contingente, nel suo mutevole svolgersi per scoprire il senso o perlomeno tracce significative di un possibile senso. I suoi occhi sono carta moschicida che avvolgono il mondo che lo circonda e tutto ciò che cattura è custodito con cura.

Diaframma, tempo di posa, sviluppo e stampa chimica sono gli strumenti di questa divinazione e le foto nel loro essere imperfette diventano risposte e domande in cui ci immergiamo e riconosciamo i nostri dubbi e le nostre angosce. Una parete è piena di provini, realizzati per decidere come stampare le immagini finali ed è questo un modo per renderci partecipi del suo percorso creativo ed è anche un modo per farci comprendere che il percorso è parte del risultato e che se vogliamo vivere il suo mondo interiore non possiamo essere solo spettatori, ma dobbiamo percorrere almeno una parte di quel percorso anche noi.

La prima sala è dedicata alle foto di Varanasi, la seconda a quelle di New York, ma le città sono raramente riconoscibili. Il luogo dove opera non è importante, è solo un ulteriore verifica del suo essere interiore che ritrova l’unità nella diversità. Il suo fotografare vive in una dimensione religiosa e filosofica, le sue immagini sono preghiere rituali per evocare il divino.

Durante l’inaugurazione, sapientemente organizzata da Cristina Ferraiuolo, è attento a tutto quello che accade, vuole conoscere chi sono le persone che partecipano, perché sono interessate alle sue foto. Il vernissage perde la sua dimensione mondana per divenire un’esperienza collettiva in cui l’artista è solo il detonatore di risonanze interiori, ma siamo tutti coinvolti. Credo che sia importante, soprattutto per i giovani artisti, riscoprire il senso vero di un evento espositivo che non è una celebrazione, ma una verifica collettiva di un percorso di ricerca.

Nato a Tel Aviv nel 1967 si trasferisce a soli 7 anni a New York con la famiglia. Nella grande città americana scopre la sua vocazione per la fotografia e comincia a sperimentare e scopre le possibilità tecniche ed espressive del linguaggio fotografico. Il suo lavoro si inserisce nella grande tradizione della fotografia di strada americana che vede maestri come William Klein e Garry Winogrant, ma il suo approccio rivela caratteristiche di originalità che lo consacrano come un grande innovatore.

Nel 1999 pubblica il libro End Time City con l’editore Robert Delfire e si afferma come uno dei maggiori talenti a livello internazionale. Nel 1998 vince l’Infinity Award for Young Photographer da parte dell’International Center of Phootgraphy e nel 1999 riceve il Nadar Award. Nel 2001 pubblica il libro Fiction che in Italia viene stampato da Federico Motta. Nel 2010, sempre con Robert Delfire, pubblica Half Life. Nel 2020 realizza un libro d’artista dal titolo Epilogue. Riceve molti altri premi e riconoscimenti e le sue foto sono esposte nei musei più importanti.

Ackerman viene la prima volta a Napoli per il Capodanno del 1999 e scopre che anche la città partenopea ha una realtà sociale e culturale così complessa e contradittoria e merita di essere indagata. Alcune foto di questa sua ricerca sono state esposte sempre alla Spot Home Gallery un anno fa. Speriamo che in futuro ci sarà un lavoro completo di Michael Ackerman su Napoli, sarà senz’altro un contributo importante per la storia culturale della città.

(*) esperto in storia e tecnica della fotografia
già docente Accademia di Belle Arti

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