
di Luca Sorbo
“Ho cominciato a fotografare nel 1956 con un AGFA a soffietto che mi regalò uno zio che venne dall’America. Le prime immagini le ho pubblicate sul numero d’avvio di Documento Sud nel 1958. La rivista era diretta da Luigi Castellano e vi collaborarono Mario Persico, Lucio Del Pezzo, Guido Biasi, Sergio Fregola e Bruno Di Bello. Ricordo la mia prima foto stampata: raffigurava una serie di reggipetti usati, esposti per la vendita nella vetrina di un negozio.

Leggevo anche Il Mondo di Pannunzio, unico giornale che firmava le foto. Presi alcuni miei scatti, li misi in una busta e li spedii. Non mi presentai di persona. Ne scelsero alcuni. La mia prima pubblicazione importante fu su Il Mondo: la violinista ferma davanti alla Rinascente.
Io cammino. Sono un peripatetico. Esco, vado in giro e fotografo ciò che incontro e che mi capita di vedere. Non mi muovo mai con l‘intenzione di fare qualche foto determinata. Non ho mai pensato allo scatto, all’inquadratura perfetta, al diaframma. A me interessa documentare il momento.
Questo modo di fotografare è il mio abituale, quando c’è una scena che mi colpisce, scatto, senza pensare all’immediato. La fotografia per me è documento e denuncia. Non faccio l’artista. Il fotografo è fotografo. Io fotografo perché non ho dimestichezza con la penna, scolasticamente ero un disastro. Non ho sempre il fotoreporter, per un certo periodo, per vivere, ho fatto altri mestieri. Ho mantenuto sempre i rapporti con i compagni, con il sociale, anche quando ho fatto “l’uomo del banco dei pegni”, li a via Pessina. Ho conosciuto così tanta umanità e sofferenza. Ho aperto infine un negozio di giocattoli al Vomero, La città del sole. Poi a metà degli anni Settanta ho ripreso a fotografare in modo professionale e continuativo.

Ho sempre venduto le mie fotografie direttamente ai giornali senza valermi di agenzie. Ho venduto le foto solo a quei giornali che me le firmavano. Non ho mai accettato di lavorare per quelle testate che riportano la firma degli articolisti ed ignorano quella dei loro fotografi.
Io non fotografo le celebrità, ho seguito pochissimo la cronaca. Cosa fotografare? LO sfruttamento. La condizione dei diseredati di tutta la Terra. E anche le guerre: io sono contro ogni forma di guerra. Bisogna mostrare tutta la barbarie e l’assurdità di massacri che recano profitti solo ai grandi manovratori della politica e della finanza. Fotografare la gente, la società, gli sfruttati. Non certo i politici, le star, gli uomini di potere. Questi qua, io li ho fotografati pochissimo e quando ho potuto, ho evitato di farlo. Non ho mai avuto i mezzi, ma potendo, viaggerei. Andrei nelle zone più depresse del Pianeta per documentare le dure realtà. La foto è molto più efficace dell‘immagine filmica e televisiva che scorre via veloce: la foto resta immobile e fa riflettere. La foto è documento e denuncia. Non è solo emozione, è anche pensiero.
Io sono anarchico, non ho mai votato.”
Queste parole scritte da Guido Giannini e pubblicate dalla rivista indipendente stella*nera, relativa ad una “non” etichetta discografica, diretta da Marco Pandin, raccontano l’esperienza del decano dei fotografi napoletani, classe 1930, che in questi giorni compie 94 anni.

Guido Giannini è una personalità molto nota a Napoli. Nonostante la venerabile età è facile incontrarlo nel centro storico camminare in compagnia del suo bastone. Appare sempre energico e lucido. Ricordo quando a Port’Alba mi raccontò della sua esperienza delle Quattro Giornate di Napoli. Ha una memoria straordinaria ed ascoltarlo significa vivere molti degli episodi più significativi della città del dopoguerra. Non ha mai vissuto l’attività professionale in modo canonico. L’impegno politico e sociale è sempre venuto prima della necessità di vendere le foto. Non ha mai promosso molto le sue immagini, anche se i critici più attenti hanno sempre apprezzato il suo lavoro. Nel 1986, Vladimiro Settimelli, nel catalogo del libro Sopravvivenza, sopravvivenze, scrive: Fotografare Napoli, da sempre, mette alla prova intelligenza e sensibilità, rabbia e tenerezza. È, insomma, un duro esercizio della mente e del cuore e pochi riescono e pochi riescono a superare il pericolo del bozzettismo”. Guido Giannini è riuscito a mostrare una Napoli che ancora sa destare attenzione e stupore. Le sue foto dei fidanzatini hanno uno straordinario successo sui social, anche se non sempre viene citato il nome dell’autore.

Ermanno Rea confessa che proprio un’immagine di Guido Giannini, quella della violinista, è stata una sua guida ideale. Fabrizia Remondino è stata una sua amica con cui ha condiviso per un periodo gli ideali anarchici.
Ha conosciuto tante personalità importanti come Mario Persico, Bruno di Bello, Mario Martone, ma non ha mai utilizzato le sue amicizie per promuovere il suo lavoro. Ha pubblicato molti libri, non sempre stampati nel modo migliore. Giulio De Martino ha definito Guido Giannini il fotografo che cammina. È interessato principalmente alla vita quotidiana, alle persone comuni. Il suo stile di inspira alla grande fotografia umanista francese dei Cartier Bresson, dei Doisneau, dei Ronis. Il suo impegno sociale si materializza nel riprendere gli emarginati, i diseredati.
Oggi a 94 anni sarebbe opportuno realizzare una monografia prestigiosa che dia giustizia del suo impegno umano, professionale e politico.
(foto di copertina di Federico Righi, per gentile concessione dell’autore)