di Luca Sorbo
La passione è un vento a cui non si può cambiar direzione e la vicenda umana e professionale di Luciano D’Inverno è la prova di questo. Nonostante alcune difficoltà per dedicarsi alla fotografia è riuscito ad affermarsi sia nel campo professionale ed artistico. È un sognatore che sa lottare per realizzare i propri sogni. Alcuni autori con gli anni perdono entusiasmo e vivono il loro percorso come un mestiere. Luciano ha ancora la capacità di meravigliarsi ed ha l’umiltà e l’ambizione per impegnarsi in progetti importanti senza pensare troppo alle difficoltà che dovrà affrontare.
- Come è nato il tuo interesse per la fotografia?

Nel 1986 lavoravo in una fabbrica di bulloni come metalmeccanico, il datore di lavoro era Mario Paliotto. Sapevo disegnare ed ero affascinato dalla pittura romantica di Caspar David Friedrick. Frequentavo un centro sociale del mio paese (Acerra) nella provincia di Napoli, qui un giorno proiettarono una pellicola di Wim Wenders “Lo stato delle cose”; me ne innamorai. Successivamente acquistai “la trilogia della strada” di Wenders in videocassette, vedo più volte “Alice nelle Città”. Mi incuriosiva il personaggio interpretato da Rüdiger Vogler e il suo modo di raccontare per immagini: in un passaggio dice: “Le immagini prodotte non riescono a raccontare la realtà, mai uguale a quello che vedo”. Capii che la fotografia era qualcosa di diverso del semplice ritrarre, cosi un giorno chiesi al datore di lavoro di poter lavorare solo di notte concedendomi il permesso di andare a scuola. Mi iscrissi all’istituto d’Arte nella sezione fotografia e per cinque anni lavorai di notte andando a scuola la mattina. Il pomeriggio dormivo e cosi via. Mi vergognavo di essere uno studente di venti anni, in una classe di ragazzi tra i quattordici e quindici anni.
- Quale è stato il tuo percorso formativo?

All’istituto d’arte incontrai Libero De Cunzo e tanti altri docenti di eccellenza. Libero mi fece innamorare della fotografia, con i soldi che guadagnavo in fabbrica comprai subito una Reflex ed un ingranditore. Un amico mi regalò una vecchia macchina a corpi mobili Sinar 4×5 pollici, sperimentavo e dormivo quasi niente; vivevo solo per la fotografia. Avrei dovuto lasciare la fabbrica ma non me lo potevo ancora permettere. Mio padre era operaio e noi figli eravamo sei.
- Quale è stata la tua prima esperienza importante?
Non c’erano cartoline del mio paese e cosi pensai di produrre sei immagini. Giravo tra edicole e cartolerie per venderle prima ancora di mandarle in stampa. Il progetto andò bene e con il ricavato produssi le cartoline, avevo lasciato la fabbrica e cercavo di sostenermi economicamente. Fittai un basso e dormivo in camera oscura. Stampavo anche per fotografi professionisti.
Un giorno mi chiamò il direttore del museo di Acerra e mi commissionò il catalogo, aveva visto le foto delle cartoline, forse quella è stata l’esperienza che mi ha proiettato a nel professionismo.
- Nel tuo percorso ha avuto un ruolo particolare la studiosa Ennery Taramelli. Come l’hai conosciuta e come ti ha influenzato? Come è nato il tuo primo libro fotografico?

All’inizio degli anni novanta mi sono iscritto all’Accademia di belle arti di Napoli. Qui ho incontro Ennery Taramelli, docente di Storia dell’Arte. Sapevo della sua attività di ricerca e del ruolo straordinario che occupava nella fotografia. Seguivo tutte le sue lezioni con molta attenzione, mi incantava il suo modo di spiegare e raccontare. Un sabato mattina, alla fine di una lezione del tutto straordinaria, mi avvicinai e le mostrai alcune mie foto fatte a un gruppo di Rom nei Bipiani di Ponticelli (NA), Ennery davanti a tutti esclamò: “Questo ragazzo è veramente bravo”; mi emozionai. Successivamente mi dedicai alla fotografia di paesaggio iniziando una ricerca sui luoghi del “Miglio d’oro” ma la interruppi. Dopo un lungo viaggio in Chiapas mi fermai per un periodo a Milano, dove conobbi Grazia Neri, ma ero comunque sempre di più attratto dalla fotografia di paesaggio. Tornato a Napoli continuai la ricerca sui luoghi del Miglio d’oro. Poi un giorno mentre facevo colazione al bar di Piazza Bellini e selezionavo dei provini, mi si avvicinò Attilio Wanderlingh (editore di INTRA MOENIA) e mi chiese se ero interessato a produrre una pubblicazione. Contattai subito Ennery e lei mi chiese di portarle le foto a Roma. Volevo migliorare il lavoro e stampai le foto per tutto il giorno fino alle sei del mattino. Arrivai in treno con le stampe ancora umide ma mi ero portato il necessario per appenderle per tutto il vagone. Arrivato a casa di Ennery parlammo del lavoro fino a che mi addormentai sul divano. Quando mi svegliai lei stava componendo il racconto sul pavimento. Dopo alcuni giorni mi dette il testo. A distanza di qualche anno trovai i fondi per la pubblicazione. Cosi nacque “Vesevo”, il mio primo libro e cosi, si consolidò il rapporto con Ennery fatto di stima ed amicizia ormai da trentadue anni.
- Professionalmente ti occupi di foto di gioielli. Quali sono state le tue attività lavorative che ricordi con maggior piacere?

La fotografia di gioielli mi dà sempre stimoli, è una fotografia molto creativa, soprattutto quando ti vengono commissionati dei servizi editoriali. Io penso che questo tipo di fotografia apra molto la fantasia: prevede la costruzione di un set, il dipingere oggetti per la scena, trasformarli, decontestualizzarli. Prevede il confronto con i creativi, prevede strategie di comunicazione; prevede una straordinaria conoscenza della luce, delle attrezzature (soprattutto quelle delle macchine a corpi mobili). Non deve mancare mai filo, scotch, forbici, colori, pennelli, insomma un vero laboratorio. È un tipo di fotografia che ti permette di stare da solo (gli oggetti non parlano ma raccontano) in silenzio; in un certo senso trasponi in un oggetto il tuo modo di vedere e interpretare le cose. Le attività lavorative che ricordo con maggior piacere sono i redazionali, soprattutto quando il committente mi lascia libero di esprimermi, li do il meglio di me stesso.
- Come concili l’attività professionale con la ricerca creativa?
Io penso che sia un’esigenza. Come dicevo la fotografia di Still-Life prevede un buon rapporto con la solitudine, con la meditazione, un’ottima conoscenza della luce. Con la fotografia di ricerca mi comporto allo stesso modo, la maggior parte dei miei lavori sono dei racconti per immagini concepiti in solitaria, la luce invece di metterla (cosa invece che accade in studio) la cerco, mi scelgo le stagioni, guardo spesso il meteo. I luoghi mi devono meravigliare, a tratti sorprendermi. Individuato un luogo, cerco di addentrarmi nelle sue radici leggendo, mi confronto con i suoi abitanti, e cosi tra viaggio e lettura nasce una storia. Torno più volte su uno stesso luogo, so che c’è una certa energia al suo interno ma quasi mai sono soddisfatto del risultato: è un’ossessione. Un racconto può durare anche anni di lavoro, è un continuo guardare guardandomi. Ultimamente ho fatto caso ad una cosa, all’interno di un racconto, ad un certo punto per una strana magia trovi quell’immagine che già in ripresa ti consola. So che quella immagine mette d’accordo tutto il progetto, è la chiave di volta: so che sta accadendo qualcosa di importante in quel luogo, mi sento sospeso tra incanto e meraviglia.
- Quali sono state le altre tue pubblicazioni?

Nel 2004 ho ricevuto la commessa per il calendario Terme stufe di Nerone, dovevo fotografare i Campi Flegrei. Mi feci catturare dal luogo, lessi alcuni libri storici e tirai fuori 59 immagini. Nel 2005 partecipai al Toscana Foto festival con questo lavoro, e fui classificato primo, il direttore artistico era Franco Fontana. Nel 2007 usci “Campi Flegrei” con il sottotitolo “Qui i piedi non si posano per terra”, con testi di Ennery Taramelli e Olga Scotto di Vettimo e lo presentai al PAN di Napoli. Poi per dieci anni ho fatto solo qualche mostra e partecipato a diverse pubblicazioni collettive. In questo periodo abbastanza lungo ho lavorato a diversi progetti, purtroppo chiusi in un cassetto: “L’amante di Costiera”, “Cercando Lisbona” e “Viaggio in Europa”, tutti inediti, è difficile trovare un editore e fondi necessari alla pubblicazione, soprattutto quando il progetto non ha mercato. Dopo questo lungo periodo nel 2017 feci un sopralluogo alla Reggia di Caserta per fare lavoro di gioiello indossato. Attratto dai giardini, chiesi di fotografare il Parco della Reggia per un anno intero, (permesso accordato), ero felice di perdermi in quel luogo quasi magico, ma ad aprile persi mio fratello, entrai in crisi. Volevo rinunciare al progetto, ma pensai; quale miglior luogo per meditare? Sentivo il desiderio di isolarmi, cosi chiesi di entrare solo il martedì, il giorno di chiusura settimanale. Decisi di lavorare con il banco ottico, portando fuori fuoco alcuni piani dello spazio visivo, allontanandomi da una ripresa oggettiva, cercavo un luogo sospeso nel tempo passato, un diario della memoria. “Cosi nel 2019 nacque “Quattro Tempi” con una mostra curata da Gabriella Ibello ed il libro a cura di Ennery Taramelli. Un’ultima pubblicazione è stato il Catalogo della mostra Visioni, commissionatomi dalla Reggia di Caserta per il 250° anniversario della morte di Luigi Vanvitelli, tra i vincitori di Strategia Fotografia 2022, bando promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura per la valorizzazione della fotografia d’autore.
- Quali sono i tuoi riferimenti visivi e culturali?

La mia visione di paesaggio è sicuramente legata alla pittura romantica di Caspar David Friedrick , ed in parte al suo allievo Carl Gustav Carus, vedi :“lettere sulla pittura di paesaggio”. La lettura di Calvino mi trasporta in un luogo immaginario, adoro il suo modo di raccontare. Mi affascina la solitudine dei luoghi nelle immagini di Atget. Mi inquieta l’opera di Hopper. Mi piace la fotografia americana di Walker Evans ma anche quella di Stephen Shore e di William Eggleston ( la lista sarebbe lunga). Adoro la musica Rock e mi fanno stare bene la musica jazz e la musica classica.
Leggo volentieri saggi sulla fotografia ma anche romanzi e poesie. Ultimamente ho letto un piccolo racconto di Daniele del Giudice che mi ha fatto riflettere “ Staccando l’ombra da terra”. Rileggo con grande piacere “ L’amante del vulcano” di Susan Sontag.
- Parlami del tuo ultimo progetto che ti ha visto coinvolto con Luciano Romano e Gabriella Ibello?

“Attraversamenti” nasce qualche anno prima, quasi subito dopo “Quattro Tempi”. Per gran parte del suo lungo percorso questa fantastica opera di ingegneria idraulica non è affatto visibile; il condotto sparisce e si rende invisibile salvo poi riemergere in superfice con una serie di ponti tra i quali spicca il ponte della Valle di Maddaloni con il suo grandioso aspetto monumentale e scenografico. Pensai dunque di svolgere una ricerca sui Comuni attraversati dal condotto fotografando il paesaggio ai lati dell’acquedotto, anche perché in diversi tratti è difficilmente attraversabile, soprattutto nella parte montuosa. Idea subito esclusa quando percorrendo un piccolo tratto di montagna, che va dal torrino 21 al torrino 25 ho avvertito il singolare contrasto tra l’incanto del paesaggio sospeso nel silenzio immoto delle cime e il rumoreggiare sonoro delle acque sotterranee che attraversano il condotto.
Una volta preso atto di questo andamento musicale ho deciso di fotografare l’intero percorso dell’acquedotto per tutti i suoi 38 kilometri di lunghezza, iniziando dal paesaggio del Monte Taburno fino al Monte Briano e cosi nasce attraversamenti. Attraversamenti è il percorso dell’acqua e sono i passi di Vanvitelli che la cerca, sono i ponti che uniscono i monti e metaforicamente è anche il mio sguardo che attraversa la camera ottica.

Mi sono fatto trasportare da questa energia che mi ha accompagnato per l’intero percorso, ed ho tradotto in visioni il paesaggio che Luigi Vanvitelli ha visto e ha attraversato nel corso dei nove anni dell’impresa ingegneristica da lui vissuta come una sfida.
Accogliendo questa stessa sfida nella contemporaneità, ho compiuto dunque il mio viaggio dello sguardo attraversando valle e monti, boschi e fiumi, fino ad arrivare al foro nel Bosco di San Silvestro; punto di inizio e fine, metafora assoluta dell’atto del guardare attraverso.
- Cosa è per te oggi la fotografia e quale potrà essere il suo futuro?

La fotografia per me resta e rimane un attraversamento, la capacità di raccontare e di raccontarsi, qualsiasi evoluzione anche di carattere tecnico di certo non condiziona la poetica. Siamo passati velocemente dall’analogico al digitale ma questo non ha condizionato il linguaggio. Fino a venti anni fa nel mio settore si facevano massimo due esposizioni: le pellicole piane costavano e non si poteva fare spreco, un processo lentissimo, oggi è tutto più facile, veloce. Il futuro della fotografia lo stiamo attraversando e non mi sorprende incontrare dei “Replicanti”. Fra qualche giorno, nemmeno tanto lontano, non faremo più caso se quell’immagine sia reale o frutto dell’intelligenza artificiale. Ti racconto una cosa: nel 2009 entrai in una crisi profonda, passavo giornate intere nello studio. Un giorno decisi di fare un viaggio nelle capitali d’Europa, ma feci un viaggio virtuale. Mettevo sul motore di ricerca del computer il nome di una città, venivano tante immagini, le prendevo e le mescolavo fra loro poi le sommavo (certe volte anche cento immagini), cancellavo gli elementi di troppo, le montavo in una polaroid film type 55. Successivamente ne ricavavo un negativo che poi stampavo in camera oscura a contatto. Il risultato piaceva a tutti ma era la somma di immagini altrui con le quali avevo creato una mia idea di citta. Alcune sono state pubblicate nel catalogo della Biennale di Alessandria del 2011. Il lavoro si chiama “Viaggio in Europa” Ma lo ricordo come un gioco.
- Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Dal 2025 collaboro con Clelia Belgrado “Vision Quest 4Rosso Contemporary art” e ci sono diversi progetti in programma. Dall’aprile 2024 sto lavorando e ripercorrendo i luoghi del “Miglio D’oro” ci pensavo da tempo, la scintilla nasce dall’aver riletto “L’amante del Vulcano” di Susan Sontag. Sentivo l’esigenza di tornare in quei luoghi.
Sto lavorando anche ad un progetto legato alla Reggia di Portici ma non so ancora se tenerli separati o metterli insieme in un lavoro più ampio.
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