
di Luca Sorbo *
“Vorrei iniziare citando Fernando Pessoa «…ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare…». Questa frase sembra scritta per me e descrive bene il mio atteggiamento ricorrente: perdermi a guardare, immaginare, seguire visioni fuori della realtà. Questo mio bisogno di contemplare e fantasticare è in continuo conflitto con una realtà nella quale la capacità di guardare ci sfugge sempre di più e si va perdendo con essa la possibilità dell'osservazione e della riflessione …”
Con queste parole Mimmo Jodice, tra i massimi fotografi internazionali, esordisce nella lettura della lectio magistralis per la laurea Honoris Causa che la facoltà di Architettura della Federico II di Napoli gli ha conferito il 16 novembre 2006.
La figura di Mimmo Jodice è centrale nella fotografia italiana del dopoguerra ed ovviamente è centrale anche per comprendere le dinamiche della fotografia napoletana.
Jodice scopre le impronte di luce, quando nei primi anni Sessanta del Novecento, riceve in dono un ingranditore. Le sue prima esperienze sono in camera oscura, qui scopre la potenza della stampa nella realizzazione di un'immagine. Una sua frase famosa è che si diventa autore non quando si scatta, ma quando si sceglie la foto da stampare. Lo scatto è solo un momento preparatorio, la stampa e le decisioni che si compiono in questa fase sono il momento decisivo.
Negli anni Sessanta e Settanta sperimenta molto, cerca di scoprire le potenzialità tecniche ed espressive del mezzo fotografico. Vive in maniera immersiva tutte le tensioni sia sociali che artistiche della città di Napoli. Di grande importanza l'amicizia con il pittore e fotografo Luciano Thermes e con il pittore Emilio Notte che lo aiutano a trovare una consapevolezza nel suo fotografare. Importante anche l'amicizia con l'architetto Cesare De Seta con cui collabora per la realizzazione del volume Mezzogiorno. Questione aperta. Partecipa alle numerose manifestazioni politiche e sociali che si svolgono e segue attentamente l'esperienza di gallerista di Lucio Amelio che porta in città i maggiori artisti dell'epoca come Wharol e Beuys. Cresciuto nel quartiere della Sanità conosce bene la miseria e la nobiltà di Napoli e dalla scuola della strada impara la potenza emotiva dei luoghi e la teatralità dei suoi abitanti.
La fotografia di Mimmo Jodice oscilla su diversi piani di ricerca, dall'impegno sociale, alla ritrattistica, alla fotografia antropologica, a quella concettuale. La costante è l'intensità con cui vive ogni esperienza. Proprio questa molteplicità di competenze e di coinvolgimenti emozionali lo porterà a trovare uno stile originale.
Nel 1962 sposa Angela Salomone, docente di inglese, che sarà fondamentale per trovare la determinazione a dedicarsi solo alla fotografia d'arte in anni in cui le impronte di luce erano solo un mestiere ed a Napoli era solo finalizzata solo alla cerimonia.
Nel 1970 presenta la sua prima mostra importante alla galleria IL Diaframma di Milano gestita da Lanfranco Colombo. Il titolo era Nudi dentro cartelle ermetiche, con un testo di Cesare Zavattini.
Il primo libro importante è Chi è devoto, realizzato con il maestro Roberto De Simone, con cui aveva cominciato a collaborare nel 1969, in cui documenta con straordinaria efficacia i riti sacri che si svolgono in Campania.
Ispirandosi ai maestri della Farm Security Administration come Dorothea Lange documenta le condizioni di povertà di tanti quartieri di Napoli, la vita degli operai e le condizioni dei malati di mente dell'ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi.
Nel 1969 comincia la sua collaborazione con l'Accademia di Belle Arti di Napoli e nel 1970 diviene il primo docente di fotografia in un'accademia italiana.
Nel 1979 la rivista Progresso Fotografico gli dedica un numero monografico per la sua opera di fotografo sociale.
Negli anni Ottanta la società cambia, tanti ideali di libertà ed uguaglianza vengono delusi, è il tempo degli Yuppies, della finanza, del guadagno facile e Jodice non trova più in questo contesto le motivazioni per impegnarsi nel sociale.
Testimonianza efficace di questa fase del suo percorso è il libro Vedute di Napoli. Vi è rappresentata una città in cui non c'è la presenza umana, in cui si confronta con la potenza delle architetture e della luce. È una fotografia densa di suggestioni metafisiche che prova ad esplorare la magia dei siti archeologici e non che hanno stratificazioni millenarie. È un viaggio nel tempo, alla scoperta della memoria emotiva dei luoghi, alla ricerca del mito di Partenope e di tutte le genti che l'hanno abitata e trasformata. È una fotografia che vive di necessità interiori, di confronti necessari. Si rapporta con le architetture più iconiche, individuando percorsi originali. Bellissimo il libro del 1987 sul Suor Orsola Benincasa e magistrali le immagini delle statue del museo archeologico. Scopre che c'è una sintonia visiva tra i volti delle statue, delle pitture pompeiane, dei quadri del seicento con i personaggi della Napoli popolare, segno evidente di una continuità genetica e culturale che supera i due millenni. La sua fama travalica la penisola e trova riconoscimenti importanti in Europa ed in particolare in Francia che dalla nascita dell'Invenzione meravigliosa è un punto di riferimento irrinunciabile.
Nel 1981 partecipa al lavoro di gruppo, coordinato da Luigi Ghirri, Viaggio in Italia, da cui nascerà una delle avventure più interessanti della fotografia italiana.
Nelle sue inquadrature, nei suoi frammenti spazio temporali vive un tempo interiore che gli consente di condividere sentimenti e valori universali.
Nel 1993 viene pubblicata una monografia sul suo lavoro in italiano ed in francese intitolata Tempo interiore, a cura di Roberta Valtorta.
Nel 1995 è edito il volume Mediterraneo in cui convergono tutte le sue riflessioni visive sui temi della memoria, delle origini, della persistenza del passato.
Nel 1998 pubblica Eden, con un testo di Germano Celant, in cui sono estremizzate alcune ricerche presenti in Mediterraneo.
Nel 2016 il Museo Madre gli dedica una grande retrospettiva dal titolo, Mimmo Jodice. Attesa. 1960-2016
Gli ultimi esiti della fotografia di Jodice sono ben sintetizzati da una frase di Theodor Adorno: “L'arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”.
Molte sono le pubblicazioni recenti in cui il suo guardare è sempre più consapevole e sicuro. Questo è sicuramente uno dei grandi meriti di Jodice, l'aver continuato sempre a sperimentare e ricercare, anche in età avanzata, l'aver sempre seguito le sue necessità interiori vivendo la responsabilità di confrontarsi con luoghi densi di storia e cultura.
Per comprendere pianamente il suo lavoro è necessario analizzare in modo approfondito tutte le relazioni che ha vissuto con la cultura napoletana ed italiana, anche a volte in modo conflittuale. È necessario comprendere gli sbandamenti e le difficoltà dei momenti iniziali che sono stati vitali per fargli scoprire ciò che è veramente essenziale. Non bisogna commettere l'errore che per celebrare un grande maestro si rinunci a comprendere il suo percorso nella sua completezza.
(*) esperto in storia e tecnica della fotografia
già docente Accademia di Belle Arti