Mostra del cinema di Venezia, un bilancio in prima fila

di Ulderico Pomarici *

La Mostra è dunque finita sabato 11 settembre e ha assegnato i suoi premi più importanti: il Leone d’oro al film francese L’événement della regista Audrey Diwan (tratto dalla novella di Annie Ernaux dallo stesso titolo); Il Gran Premio della Giuria al film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio; la coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Penelope Cruz (Madres paralelas); quella per la miglior intepretazione maschile a John Arcilla (On the Job. The missing 8).

ll film vincitore narra la storia di una ragazza versata negli studi e molto promettente che resta improvvisamente incinta. Perché la giuria internazionale ha scelto proprio questo film? Ambientato in Francia all’inizio degli anni ’60, il film mostra le enormi difficoltà per una giovane donna di affrontare in quegli anni un evento qual è la maternità così precoce, e il conflitto che si scatena in lei perché la nascita metterebbe a repentaglio gli studi e il lavoro sognato. Contro tutti i pregiudizi e il pensiero dominante decide quindi di abortire lottando per affermare un principio di autodeterminazione che in quegli anni era misconosciuto o comunque avversato. Il Leone d’Oro a questo film segna una traccia che costituisce il leit-motiv dell’intera manifestazione: c’è una violenza che è quella dell’aborto, ma una violenza che nasce all’interno di un progetto di vita affrontato con coraggio e passione, il dolore della perdita e la violenza dell’aborto sono dunque riscattati da una determinazione positiva che non resta nel dolore ma si fa progetto, forma di vita.

Ecco, se può ritrovarsi un senso a questa Biennale cinema è la risposta vitale – in tutti i sensi: sforzi produttivi, entusiasmo, partecipazioni attoriali importanti – all’incombere del Covid19 che è restato invece del tutto fuori dei cinema (solo due contagi su migliaia di controlli) ma anche proprio del cinema come discorso sociale. La prima cosa che colpisce arrivando al Lido è il tranquillo e disordinato flusso di persone che sciamano sotto un sole gentile. Nei giorni della Mostra il Lido conserva ancora un miscuglio di immagini del passato: la memoria di Visconti e Thomas Mann – anche se l’Hotel des Bains è purtroppo in disarmo – e i deliziosi e lussuosi villini ottocenteschi fintorinascimentali che vengono dati in fitto per le giornate del concorso. Ma la cosa straordinaria è che in quello sciamare di giovani, meno giovani e addetti ai lavori, nonostante i controlli continui, le mascherine che è obbligatorio tenere durante le proiezioni, nonostante il Green Pass da esibire all’acquisto dei biglietti, il Covid 19 sembra un ricordo del passato.

Il Lido sembra un’isola felice, un paese dei balocchi dove il cinema impera e risplende, lasciando fuori la porta le preoccupazioni che serpeggiano altrimenti in Italia. È una sensazione straniante: Il cinema vince il Covid, questa è l’idea che si impone passando fra le migliaia di biciclette che attraversano i viali del Lido o mentre si vedono nugoli di ragazzi che passeggiano tranquillamente all’ombra degli alberi di alto fusto che ornano tutto il Lido fino a Malamocco. Sembra davvero, questa, un’edizione in armonia con i dati economici che stanno risollevando il paese.

Moltissime le produzioni straniere, il continente americano avanti a tutti gli altri, ma anche molto Oriente e molta Italia. A rafforzare questo senso di estraneità al Covid non c’è film selezionato nel quale compaia anche solo per caso una mascherina. Il tema è come rimosso, dimenticato, bandito dalla coscienza collettiva dell’arte. Paradossalmente, proprio l’esodo dal tema del Covid, invece di lasciare un vuoto di idee e   di ispirazione ha   costituito una sorta di volano sul presente, dando grande respiro a questa Mostra e consentendo agli autori di concentrarsi su altri temi. Innanzitutto la violenza e la violenza di genere. Ma non una sua sterile esibizione – magari tecnologicamente potente – quanto la riflessione sulla violenza stessa.

Si potrebbero fare quattro brevi esempi per mostrare come l’Evénément abbia in un certo senso rappresentato l’idea-guida e assieme tentare di cogliere il filo rosso che ha attraversato la Mostra nel suo complesso. Dando seguito al film francese, infatti, emerge soprattutto la riflessione sul perdono e il perdonarsi per atti di violenza perpetrati dentro strutture autoritarie anche molto diverse fra loro, nelle quali si è vittima e assieme carnefici. Il regime stalinista (Captain Volkonogov Escaped, regia di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov); quello americano di Guantanamo (The Card Counter regia di Paul Shrader), una multinazionale (Un autre monde regia di Stéphane Brizé); il crogiuolo stampa-politica corrotta nelle Filippine (On the Job: the Missing 8 regia di Erik Matti).

Come si può vedere dalle provenienze geografiche è un tema, questo, riconosciuto e attuale ovunque. Forse il tema del nostro tempo: riscattare la violenza perpetrata dalle istituzioni politiche e il bisogno profondo di riscattarla per riscattare se stessi. Quattro uomini che in modo anche molto contraddittorio per le vite che hanno vissuto fin qui decidono di riparare, nella misura del possibile, al male commesso tirandosi fuori, anche a prezzo della propria vita, dall’istituzione criminogena.

Valgano per tutti il film russo citato prima sugli orrori del regime stalinista: l’opera ambientata nel 1938 mette in scena una sorta di Via Crucis dove un militare macchiatosi di torture ai danni di innocenti per obbedienza ai suoi superiori cerca il perdono almeno di un familiare delle vittime da lui torturate a morte per poter accarezzare la speranza della salvezza, del Paradiso. O, attualissimo, il francese Un autre monde, collocabile tra Ken Loach e i fratelli Dardenne per il modo in cui affronta il problema del lavoro e dei licenziamenti nella grande industria.

Il film si svolge intorno alla trattativa fra i direttori della filiale francese di una multinazionale americana e il CEO americano della casa madre: una sceneggiatura eccellente per realismo che fa risaltare le logiche contrapposte del cinismo americano e della sensibilità sociale europea nel coraggio di un dirigente cinquantenne che vuole pagare il prezzo dei propri errori pur di salvare i posti di lavoro ai quali ha dedicato tutta la propria vita. Una catarsi che mette a repentaglio la carriera nel segno della volontà di riscatto.

(*) Ordinario di Filosofia del Diritto
Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’

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