Ordet, ‘la parola’: la profonda riflessione di Dreyer sulla fede

di Ulderico Pomarici *

Karl Theodor Dreyer (1889-1968), danese, animato da profonda religiosità, è stato uno dei più grandi registi europei concentrando la sua arte in pochi lungometraggi. Cinque i suoi capolavori: La passione di Giovanna d’Arco (1928); Vampyr (1932); Dies Irae (1943); Ordet (1955) Leone d’Oro a Venezia; Gertrud (1964).

Ordet è tratto da  un testo teatrale  degli anni ’30  di Kaj   Munk – pastore danese, eroe della resistenza, trucidato dai nazisti – e racconta  la storia   di una piccola  comunità agreste nel nord della Danimarca all’inizio del  secolo   scorso. La scena filmica assume con forza la dinamica teatrale, si svolge infatti quasi esclusivamente a Borgensgård, una grande fattoria fra  le  dune  sabbiose  del “deserto” danese.  C’è un  forte contrasto fra  le mura dell’antica  costruzione, le sue  piccole  stanze riprese con inquadrature fisse,  come dei  quadri, e l’immensa  distesa di erba e di sabbia dove pascolano greggi di pecore  e mandrie di buoi. Durante tutto il film, ad accompagnare gli eventi, c’è la voce eterna della natura: il  vento che soffia senza sosta, i belati delle greggi, i muggiti delle mandrie, in una luce sempre lattiginosa  e crepuscolare, anche  quando, come nella  scena  iniziale, c’è il plenilunio. Quasi che la  natura sia testimone del miracolo che alla fine  si compirà,  accogliendolo e abbracciandolo dentro di sé. Il miracolo è la resurrezione di Inger, morta di   parto. Un parto drammatico durante il quale anche il bambino muore. Dreyer mostra la  sofferenza straziante di Inger, il suo volto tirato e i gemiti, in un b/n che accentua il dramma con una tonalità realistica, e restituisce le sofferenze  della  carne senza addolcirle. Un particolare che non è un particolare: durante tutta la storia i protagonisti si avvicendano nella stalla della fattoria per sorvegliare la  scrofa che   sta per partorire,  in parallelo con il drammatico parto di Inger. Umani e  animali, gli uni accanto agli altri, nella cornice della  natura.

Ordet significa la Parola: ma non una parola qualsiasi, bensì la Parola straordinaria che compie il miracolo riportando i morti alla vita. Il film è la  storia di questo miracolo. Miracolo della fede. Ma di fedi, professate o miscredute, ce ne  sono diverse nei personaggi del film: Morten Borgen, l’anziano proprietario della  fattoria dove è  ambientato il dramma, Peter il sarto, il pastore, il medico, e la   famiglia   di Morten Borgen: Mikkel, Johannes, Inger e la piccola Maren, la fede dell’innocenza priva di ogni sovrastruttura. Ognuno mostra un rapporto diverso con la religione, irriducibile a  unità. Sembra quindi  che la fede nel miracolo di cui si parla nel  film – che appare quasi uno studio dell’uomo – sia  posta come l’estrema e  più propria possibilità dell’essere umano, la sua potenza. Il tema fondamentale del film, il miracolo, è posto da  Dreyer in un mondo dove la fede vacilla  a ogni passo, dove sembra non esserci più posto per il  senso di infinito, dove tutto è ricondotto soltanto alla vita materiale e lo sguardo resta incatenato alle miserie del presente. Non c’è più alcun posto per la meraviglia, e regna, quasi in ognuno, la rassegnazione. Allora, ecco irrompere il miracolo a spezzare le  catene  dell’umano. Lo sguardo dell’oltre. Perché la fede indica un oltrepassamento. E il miracolo appare come l’estrema possibilità che all’umano è data. L’oltre, come prospettiva della natura umana. Tuttavia, nella  piccola  comunità agreste del  film, il conflitto radicale  è fra due visioni della  religione: quella del vecchio Morten, che non ha più la fede di un tempo – ma condivide una visione, che è quella di Dreyer, legata alla vitalità, alla solarità, all’umanità profonda della fede che non separa spirito e materia, spirito e corpo, ma intende la felicità come la loro comunione – contrapposta a quella di Peter il sarto, legata invece a un’immagine  penitenziale dell’essere umano, vivente all’ombra del peccato, nel buio della ricerca di Dio, nell’abissale distanza  dalla felicità della vita.

Il vecchio patriarca Morten Borgen ha tre figli, Mikkel (sposato con Inger dolcissima madre in attesa e due figlie piccole), Johannes e il giovane Anders. Johannes è il grande tormento della famiglia. Ritornato in preda alla follia dalla città dove era andato per studiare teologia e diventare pastore, si crede Cristo e percorre le dune nella campagna parlando a una folla immaginaria come un profeta: «Guai a  voi, ipocriti, tu…e tu…e tu, guai a  voi che non credete nel Cristo redivivo…». La sua postura è periclitante e rigida, testa inclinata e sguardo rivolto sempre a un altrove, lontano dagli occhi dei familiari. Come  se vivesse in trance, in una  dimensione altra, aliena dal mondo. Appare a tutti uno squilibrato, invasato, tranne che alla piccola Maren, la figlia di Mikkel e Inger, che, unica, ha fede in lui: «il bambino…il bambino…la cosa più grande nel regno dei Cieli», dirà Johannes pochi istanti prima  di  compiere il miracolo generato dalla sua  Parola e dalla ingenua, purissima fede di Maren. Al nuovo pastore, venuto a porgere il saluto nella fattoria  e che lo incontra  senza nulla sospettare, Johannes si palesa come Gesù di Nazareth e al prete, che gli chiede (umanamente!) prova di ciò, dice:  «Tu uomo di  fede che manchi tu stesso di  fede. Gli  uomini credono nel Cristo morto e non credono in quello vivente. Credono ai miracoli di duemila anni fa e non credono in me ora […] io sono tornato per fare miracoli». E il prete ribatte: «i miracoli non accadono più». Ma chi è il Cristo vivente incarnato in Johannes se non l’essere umano nelle sue insondabili possibilità? Prova ne sia che quando Inger muore per il parto, Johannes,  dopo una breve scomparsa – lascia la  fattoria con  un biglietto dove sono riportate le parole del Vangelo (Giov.13,33):  «Io  me ne vado  e voi mi cercherete, ma dove vado io voi non potete venire» – , ritorna  improvvisamente fra lo stupore di tutti che lo credevano perduto per sempre. Giunge così nel corso della  cerimonia funebre – mentre la scena è circonfusa dal bianco accecante dell’ambiente dove si stagliano, per contrasto, gli abiti scuri dei  presenti – e per  la   prima volta è perfettamente  in sé. E in sé, proprio nella sua perfetta umanità, Johannes si appresta a compiere il miracolo al  quale nessuno vuole dare credito, nemmeno Mikkel, il marito di Inger: desideroso  di riaverla, disperato, mentre la  piange  morta. Al padre che gli dice per  consolarlo: «la sua anima è vicina a Dio. Non è qui, lo vedi bene», ribatte fra le lacrime: «ma il suo  corpo, io amavo anche il suo corpo!». Lo spirito, per l’umanità, non è  mai solo: nella  morte, è la bellezza della  corporeità a restare indelebile nel ricordo  e nel bisogno dei vivi. Poi, vedendo Johannes  che  si  avvicina  alla  bara e  parla a Inger: «Ascoltami, tu che  sei morta», proprio il pastore grida: «ma  è pazzo!». E alla piccola Maren, che lo invita fanciullescamente a «sbrigarsi» perché, nella sua innocenza, è l’unica a credere nel miracolo, Johannes chiede: «Tu credi che io possa farlo?» E poi: «La tua  fede è grande; che la tua  volontà sia fatta». Ecco, credo  che  questa sia la fede raccontata  da  Dreyer, fede nella vita come divina  potenza dell’uomo. Anders rimette in moto l’orologio a pendolo che segna il ritorno a un nuovo giorno,  impensabile e colmo di mistero. Nell’ultima inquadratura del  film Mikkel stringe Inger resuscitata a sé: «ora per noi comincia la vita»; e Inger mormora: «Sì, la   vita…la vita» mentre sollevata, ancora dentro la bara, la terrestre carnalità del suo bacio sulla guancia di Mikkel mostra la fame di vita, come se, quasi mordendo la guancia del marito, la assaporasse di nuovo, la vita, nel miracolo della Parola dell’uomo.

(*) Ordinario di Filosofia del Diritto
Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’

 

 

 

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