di Luca Sorbo
“Ho riflettuto molto sul tema del segno nell’arte, sull’autorialità del gesto che attinge, al caso, all’iconoclastia e all’irriproducibilità delle mie Polaroid. L’unica via d’uscita potrebbe essere stata quella di impostare le condizioni iniziali in modo tale che l’immagine potesse essere completata da sola. Mi affascinava l’idea di un segno che non fosse determinato dalla mano dell’artista, dalla sua cultura, ma piuttosto da qualcos’altro che disegnasse liberamente tracciando segni “non intenzionali”. Ecco da dove provengono le lucciole. Ho realizzato quest’opera esponendo la pellicola alla luce emessa da venticinque lucciole raccolte in campagna. Li ho portati in camera oscura e li ho lasciati muoversi liberamente sui fogli di pellicola fotografica in bianco e nero. Poi ho liberato le lucciole e ho sviluppato la pellicola.”
Queste parole della fotografa napoletana, che ora vive a Milano, descrivono la sua sperimentazione sulla luce attraverso le lucciole che ha eseguito tra il 1988 ed il 1991.
Queste foto sono state esposte durante la XIX edizione della Settimana Europea della fotografia in occasione della mostra di Luigi Ghirri Zone di passaggio a cura di Ilaria Campioli all’interno dei Musei Civici di Reggio Emilia. È una riflessione sul buio che ha coinvolto oltre a Paolo Di Bello anche Gregory Crewdson, Paola De Pietri, Stefano Graziani, Franco Guerzoni, Armin Linke, Amedeo Martegani, Awoiska van der.
Milanese d’adozione, Paola Di Bello è nata a Napoli. Artista, fotografa e video maker, si forma nello studio del padre Bruno, uno degli artisti italiani che negli anni ’70 inizia a fare un uso radicale della fotografia. È docente di Fotografia dal 2006 e attualmente è coordinatrice del Dipartimento di Nuove Tecnologie dell’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua ricerca è impegnata ad esplorare i problemi socio-politici della città contemporanea. Mostra il potenziale di cambiamento della realtà attraverso una pratica che unisce dimensione globale e vita locale. Entrando in situazioni della vita quotidiana, spesso caratterizzate da un profondo disagio umano, il suo lavoro determina un cambiamento del punto di vista. Il suo lavoro è incentrato sull’atto stesso del fotografare, inteso come capacità di presa dell’occhio in relazione al contesto. Il conseguente ribaltamento della visione crea un disorientamento che scardina i nostri preconcetti e la nostra visione delle cose. La sua ricerca artistica ben rappresenta le traiettorie che la fotografia europea ha preso negli ultimi trent’anni. Negli anni ha realizzato campagne fotografiche ai margini dei centri urbani, dalle favelas del Sud America alle comunità rom, viaggiando in Italia, New York, Baghdad e Giappone.