di Luca Sorbo *
“Il veneziano Gianni Berengo Gardin, che ha scattato foto molto belle sui giovani cresciuti a suon di jazz e che esplica una vena acre nell’indagare gli aspetti arretrati dei miti del nostro paese, ha un modo serrato, che talvolta accarezza il gusto compositivo senza mai soffermarsi sul particolare edonistico. Con Berengo Gardin la provincia esce dalla lunga quiete per estenuazione diremmo. Gardin, subito europeo, non conosce le sofferenze stilistiche di molti altri: il suo reportage è di marca francese, rapido e divertito”
Con queste parole Giuseppe Turroni, nel fondamentale volume del 1959 Nuova fotografia italiana, in cui individua i maggiori talenti fotografici dell’epoca, descrive i caratteri dello stile del grande fotografo.
A Villa Pignatelli si presenta fino al 9 luglio una retrospettiva della sua attività di quasi settanta anni. La mostra a cura di Margherita Guccione, Alessandra Mauro e Marta Ragozzino e realizzata in collaborazione con Contrasto, Fondazione Forma e Archivio Gianni Berengo Gardin arriva a Napoli dopo essere stata presentata con successo al MAXXI di Roma. Il titolo dell’esposizione L’occhio come mestiere nasce dal libro del 1970 curato da Cesare Colombo sulle immagini del maestro ed edito dal Diaframma.
La prima sala, con foto di grande formato, ci immergono nel suo studio e nel suo archivio. Berengo Gardin crede che per il reportage le potenzialità del digitale possano rappresentare un pericolo, poiché mettono in discussione la principale caratteristica della fotografia di essere un’impronta del reale. Tutte le foto sono in bianco e nero anche se nel suo archivio sono presenti quarantamila negativi a colori. Il fotografo, che non ama essere chiamato artista, ritiene che solo il B\N rappresenti il suo stile.
Nasce nel 1930 a Santa Margherita Ligure da padre veneziano e madre svizzera e trascorre l’infanzia nel lussuoso albergo di proprietà della famiglia.
Dopo la guerra, che segna anche il tracollo finanziario della famiglia, si trasferisce a Venezia dove nel 1952 entra in contatto con il circolo fotografico La Gondola diretto da Paolo Monti e scopre le possibilità tecniche ed espressive delle impronte di luce. Decisivi per la sua formazione furono i due anni che trascorse a Parigi dove conobbe Bresson, Doisneau, Ronis, Boubat, Masclet. Divenne consapevole di una nuova dimensione del linguaggio fotografico legata all’uso delle macchine 35mm che gli consentiva di mostrare in modo coinvolgente la realtà umana che lo circondava.
Nel 1954 ritorna a Venezia, dove lavora in un negozio di vetri di Murano e comincia a collaborare con alcuni dei giornali più importanti dell’epoca come Il Borghese di Leo Longanesi, Il Mondo di Mario Pannunzio e studia attentamente le pubblicazioni realizzate con le immagini dei fotografi della Farm Security Administration. Nel 1962 decide di passare al professionismo e di dedicare tutte le sue energie all’attività di reporter.
Il suo primo libro è del 1965 e si intitola Venice des Saisons che pubblica in Svizzera. Avvia la sua collaborazione con il Touring Club Italia che lo porterà a viaggiare in tutto il mondo. Segue con attenzione i movimenti della rivolta studentesca che si ebbero dopo il 1968. Si delinea il suo stile, caratterizzato da un’attenzione alle molteplici realtà sociali e documentate con una composizione elegante ed efficace.
Un’esperienza fondamentale nel suo percorso è il libro Morire di classe realizzato in collaborazione con Carla Celati e lo psichiatra Franco Basaglia per denunciare le drammatiche condizioni in cui versavano i malati di mente in Italia. Questo è il suo primo reportage di inchiesta e che gli fa scoprire una nuova possibilità espressiva.
Nel 1976 a seguito dell’amicizia con Cesare Zavattini decide di realizzare il libro Un paese vent’anni dopo dove si confronta con le medesime situazioni che erano state l’oggetto del libro di Paul Strand del 1955 Un paese. Da ricordare sono anche le due pubblicazioni realizzate in collaborazione con Luciano d’Alessandro Dentro le case e Dentro il lavoro.
I libri realizzati da Gianni Berengo Gardin sono oltre 250 e possono essere considerati una cronaca illustrata dell’Italia. In mostra vi sono una selezione delle copertine dei principali volumi.
Il suo stile sicuramente è legato all’esperienza della fotografia umanista francese ed in particolare a Robert Doisneau, ma la vastità del suo impegno, la serietà e la coerenza del suo approccio lo rendono uno degli autori più importanti nel panorama internazionale.
La mostra è di grande pregio ed è sicuramente da ammirare con attenzione, anche se avrei avuto piacere di vedere dei vintage di quando ha cominciato a fotografare alla Gondola a Venezia. Poteva anche essere utile esporre dei provini a contatto per comprendere le dinamiche del suo porsi nei confronti del soggetto. Potevano essere esposti i libri veri e non le riproduzioni delle copertine.
(*) esperto in storia e tecnica della fotografia
già docente Accademia di Belle Arti